lunedì 27 giugno 2016

La verità, vi giuro, sui giudici di sinistra - Piero Vietti. Magistrato

Dire che la magistratura è politicizzata non è una provocazione ma è una dura realtà. I responsabili della gogna giudiziaria sono spesso nelle procure. Libro e confessioni choc di un Magistrato democratico

di Piero Tony | 07 Maggio 2015 ore 16:47
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Pubblichiamo un estratto dal libro “Io non posso tacere. Un magistrato contro la gogna giudiziaria. Confessioni di un giudice di sinistra” (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) scritto dall’ex procuratore capo di Prato, Piero Tony, insieme con il direttore del Foglio Claudio Cerasa.



Mi iscrissi a Magistratura democratica in un pomeriggio dei primi anni Ottanta, quando le correnti parevano serie aggregazioni culturali e non erano ancora diventate, come adesso, il simbolo di ciò che non è più serio nella magistratura. Un tempo, bisogna dirlo, le correnti erano necessarie. Tutti sanno cos’era la magistratura in Italia prima di quel caldissimo luglio del 1964 quando Magistratura Democratica venne costituita. Tutti sanno – credo – che quella dell’apoliticità della magistratura è una pretesa e basta, incompatibile con l’alta politicità di qualsiasi decisione giudiziaria. Tutti continuano a sorridere, dopo quasi un secolo, per ciò che nel lontano 1925 proclamò in Parlamento il guardasigilli Rocco, quello del codice: “La magistratura non deve fare politica […]. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa e antifascista”. Sì, un tempo le correnti erano necessarie. Poi, però, sono degenerate. Da luoghi di elaborazione culturale sono divenute ottusi centri di potere e ora fanno più danno della grandine. Non mi piace generalizzare perché, come sempre, c’è magistrato e magistrato, e ci sono modi diversi di far parte di una corrente e di sentirsi parte di un progetto. Ma è sicuro che un tempo le correnti rappresentavano soprattutto le differenti vene culturali della magistratura in relazione a quelli che allora, nello specifico, erano gli interrogativi di fondo. Giudice notaio o giudice garante? Interpretazione costituzionale o precostituzionale della norma? Attenzione ai fenomeni politici o terzietà olimpica? E così via.

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Convinto, come molti altri, che per una persona di sinistra tale iscrizione non potesse avere che un motivo, almeno in via principale: garantismo e uguaglianza nei processi e impegno teso a rendere meno inermi i più svantaggiati. Perché proprio in quegli anni Magistratura Democratica l’aveva finalmente finita con la fissazione della lotta di classe – o almeno aveva avuto qualche piccolo ripensamento alla luce di quanto era successo e stava succedendo – e aveva virato verso quel garantismo di cui mi ero sempre sentito portatore. Farne parte per me significava questo, mettere le mie forze, le nostre forze, al servizio di un progetto più grande. Al centro della nostra funzione doveva esserci l’attenzione alla persona, l’attenzione anche verso chi non era potente, l’attenzione verso tutti quei disagiati che, troppo spesso, restano di fatto indifesi nel circuito giudiziario. E in questa ottica di giustizia ci si proponeva, altresì e di conseguenza, di affinare sempre più gli strumenti investigativi al fine di colpire il “potere invisibile”, i grandi furbi, quelli dei piani superiori abituati a farla franca. Magistratura Democratica voleva essere questo: la richiesta di una giustizia costituzionalmente orientata che assicurasse ai deboli lo stesso rispetto, le stesse attenzioni e le stesse garanzie di solito riservati ai forti. Avendo un po’ in mente le parole di Anatole France: “La legge è uguale per tutti, vieta sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti”. Ecco, le intenzioni erano davvero buone. Oserei dire… pie. Perché erano i tempi, sottolineo ancora, in cui le correnti venivano intese esclusivamente come luogo di aggregazione tra persone che la pensavano in modo omogeneo e si mettevano insieme per reagire alle forze considerate ingiuste e si confrontavano per far dialogare, far circolare alcune idee, alcuni progetti, alcune visioni del mondo. Ed erano i tempi, per capirci, in cui i ragazzi di sinistra, o almeno molti di loro, sentivano l’urgente bisogno di cambiare la cultura di una magistratura che pareva essere ancora, come durante il fascismo, solo uno strumento di conservazione al servizio dei dominanti, al servizio dell’establishment. Se avevo titubato per quasi quindici anni prima di aderire a Magistratura Democratica una ragione c’era, però. Perché, lo ripeto, dalla sua costituzione e per molto tempo l’ossessione della corrente era stata qualcosa che a me non interessava più di tanto: la lotta di classe di tradizione marxista e basta; magistratura come contropotere e scarsa attenzione alle persone. Qualche accenno su cosa avevamo appena vissuto? Già nel lontano 1969 era avvenuto un passaggio chiave per il mondo di Magistratura Democratica. Una fase di assestamento che coincise con l’arrivo degli anni di piombo, quando l’organizzazione affrontò una scissione interna guidata dal magistrato Adolfo Beria di Argentine. Di Argentine sosteneva che Magistratura Democratica si era legata troppo alla sinistra più estrema e che questa sua nuova natura metteva gli associati in una posizione di non terzietà. L’occasione della rottura arrivò con un piccolo episodio. Il 30 ottobre 1969 Francesco Tolin scrisse sul settimanale “Potere Operaio”, di cui era direttore, un articolo che fece scalpore: un inno alla violenza operaia. Per quel pezzo venne condannato a diciassette mesi di carcere. E il mondo di Magistratura Democratica si divise: la parte moderata difese la sentenza, quella meno moderata riteneva invece inaccettabile punire il direttore di un giornale per un reato di opinione. Alla fine i primi decisero di uscire dall’associazione accusando i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina “; provarono a dar vita a una vera e propria scissione, ma non ci riuscirono. Due anni dopo, la linea della via politica venne esplicitata in un documento presentato da tre colleghi, Luigi Ferrajoli, Salvatore Senese e Vincenzo Accattatis. Un testo storico, intitolato Per una strategia politica di Magistratura Democratica, in cui si chiedeva esplicitamente di organizzarsi come “componente del movimento di classe”, di dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principî eversivi dell’apparato normativo borghese” e di lavorare tutti insieme per avviare una pratica capace di sintetizzare la voglia dei magistrati di fiancheggiare la battaglia politica con gli strumenti della giustizia: “l’interpretazione evolutiva del diritto”. (…)

Nei primi anni Ottanta le cose, come ho detto, erano cambiate parecchio. Gli anni di piombo, il periodo durante il quale si passò rapidamente dall’estremismo della dialettica politica e parapolitica al terrorismo, all’eversione, allo stragismo, alla strategia della tensione (ricordo ancora l’impressione procuratami nel 1981 dal film di Margarethe von Trotta che da quella stagione prende il titolo), stavano finendo. Comprensibilmente, nel frattempo, c’era stato l’ampliamento dei poteri delle forze dell’ordine con le leggi Reale del 1975 e Cossiga del 1980, ampliamento suffragato dal trionfante esito del referendum popolare del 1981. Del resto nel 1969 avevamo vissuto la strage di piazza Fontana, nel 1978 l’assassinio di Aldo Moro, nel 1979 quello di Guido Rossa e del mio compagno di lavoro Emilio Alessandrini, tra l’80 e l’81 la strage della stazione centrale di Bologna, l’assassinio di Vittorio Bachelet e dell’altro mio collega Guido Galli e, nel Veneto, l’uccisione del commissario Albanese e del direttore del Petrolchimico di Marghera Sergio Gori e il sequestro del generale americano Dozier, tanto per citare alcuni dei casi più celebri. Inoltre, verosimilmente, Magistratura Democratica si era accorta che l’acceso, spesso inconsulto, qualche volta criminale attivismo sociopolitico di quelle confuse aree di estrema sinistra cui molti facevano riferimento poteva, nel guazzabuglio venutosi a creare, essere pericolosamente oggetto di sospetti, di investigazione e di denunce penali. Ricordo, ad esempio, che nel gennaio 1980 era stata formulata un’interpellanza urgente di Claudio Vitalone (più una ventina di senatori democristiani) al ministro di Grazia e Giustizia per sapere se rispondesse al vero la voce che durante una perquisizione disposta dalla procura di Roma nell’ambito di indagini relative alla morte a Segrate dell’editore Giangiacomo Feltrinelli fosse stato rinvenuto un atto da cui emergevano precisi collegamenti tra organizzazioni eversive e membri di Magistratura Democratica al fine di concertare l’approccio giusto per alcuni processi. Il fascicolo fu archiviato nel 1982, ma solo dopo grande clamore mediatico e pesanti vicissitudini processuali per i magistrati di Magistratura Democratica coinvolti. Altro esempio quello del “processo 7 aprile”. Lo ricordate? È il processo del cosiddetto “teorema Calogero”, per cui, nell’aprile del 1979, finirono in carcere Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone e altri. Le assoluzioni furono molte. Nel 1982, in “Critica del diritto” numero 23, Luigi Ferrajoli commentò: “Questo processo è un prodotto perverso di tempi perversi. […] E resterà come un sintomo grave e allarmante di arretratezza medievale della cultura giuridica della sinistra che a esso ha dato mano e sostegno”. Sono convinto, come altri, che proprio il “processo 7 aprile” fu l’ultima goccia che fece traboccare un calice di paura e, di conseguenza, fu la causa della svolta di Magistratura Democratica. Resipiscenza? Mah! Di certo era cambiato qualcosa che aveva determinato un mutamento di rotta: non più solo lotta di classe, ma anche, e soprattutto, lotta per le garanzie. Sì, proprio garantismo. Ma il garantismo, ahimè, durò poco. E oggi non faccio fatica a dire che, purtroppo, credo sia estraneo al Dna di Magistratura Democratica. Perché il garantismo attiene alla persona e Magistratura Democratica s’interessa, invece, ai fenomeni, ai determinismi sociologici, alle classi, alle masse. Perché garantismo e sospetti sono tra loro incompatibili e Magistratura Democratica non sa rinunciare ai sospetti, lo si evince dalla storia giudiziaria dei suoi membri. Magistratura Democratica dimentica che non a caso il codice (articolo 116 disp. att. c.p.p.) usa le parole “sospetto di reato”… solo per le autopsie. Ho letto da qualche parte che il povero procuratore della Repubblica di Roma Michele Coiro – uomo probo e mite morto d’infarto nel 1997, e nell’ultimo periodo della sua vita schiacciato dai sospetti che un’inchiesta milanese palesava nei suoi confronti solo sulla base, pare, di una domanda al massimo inopportuna da lui formulata a un collega – usasse dire, pur appartenendo a Magistratura Democratica come i magistrati che lo inquisivano, che “il moralismo di sinistra era venato di sospetti […] la peggiore categoria mentale figlia di Magistratura Democratica”. (…)

La situazione di oggi è questa, una magistratura corporativa e politicizzata, vistosamente legata ai centri di potere, che non urla per protestare contro un sistema che l’ha resa inutile, ma anzi continua a opporsi in modo sistematico a qualsiasi progetto di riforma dell’esistente. È probabilmente l’effetto del piccolo cabotaggio delle varie campagne elettorali, attente più agli indubbi privilegi di categoria, compresi quelli economici, che ai modi per sanare un sistema spesso inefficiente. Piccolo cabotaggio che però non impedisce – soprattutto per quell’assenza di complessi sottesa a una politicizzazione così anomala – di agire e pontificare non solo in casa propria, ma in relazione a buona parte dei grandi temi politici nazionali e internazionali senza tema di essere apostrofati con un “taci, cosa c’entri tu?”. È questo che ha portato la giustizia, e non solo Magistratura Democratica, a ritenere di avere una singolare missione socioequitativa realizzabile non con la difesa dei più deboli, ma con l’attacco ai più forti. È come se a un tratto, in mancanza di alternative di governo, una parte della magistratura avesse scelto di perseguire attraverso la via giudiziaria l’applicazione del socialismo reale. Ma così salta tutto. Saltano i confini tra la politica e la magistratura. Salta la distinzione dei ruoli. Oggi è solo tautologia dire che la magistratura è partitizzata, non si tratta di un’opinione, è un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. È un dramma, negarlo sarebbe follia.

(…) Vogliamo ricordare i tempi di Tangentopoli? Qui c’è un prima e c’è un dopo. Il prima è la fase della contemporaneità, quando noi di Magistratura Democratica abbiamo pensato che finalmente ce l’avevamo fatta, che finalmente la giustizia non era più soltanto uno strumento nelle mani dei potenti e a difesa dei potenti, ma era uno strumento con cui costringere anche i potenti al rispetto della legge. Poi, anni dopo, è divenuto chiaro ciò che realmente era successo: Tangentopoli non è stata soltanto una grande azione di pulizia etica, diciamo così, ma l’occasione in cui, in nome della battaglia contro i potenti, sono emersi i nuovi potenti, i nuovi giacobini, quelli che per la loro un po’ eccessiva e un po’ disinvolta veemenza investigativa costrinsero il legislatore a modificare l’articolo 274 del codice di procedura penale aggiungendo in precisazione una cosa ovvia che dovrebbe marcare il Dna di ogni magistrato imparziale (e informato sul diritto al silenzio notoriamente assicurato all’interrogato dall’articolo 64 del codice di procedura penale): “Le situazioni di concreto e attuale pericolo [di inquinamento probatorio, per capirci] non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti”. Era già accaduto con l’articolo 291 del codice, dove era stato necessario aggiungere che, nella richiesta al gip di misura cautelare, il pm deve presentare “gli elementi su cui la richiesta si fonda nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate” (precisazione resa necessaria dall’accertata prassi dei pm, davvero costituzionalmente disorientata, di far conoscere al gip solo gli atti a favore dell’accusa, e che già nel 1999 aveva costretto il legislatore a riformulare addirittura l’articolo 111 della Costituzione in quanto, con sentenza 361/1998, la Corte Costituzionale aveva ritenuto utilizzabili contro l’imputato dichiarazioni da lui rese nel suo procedimento o in procedimenti contro altri – articolo 210 c.p. – al di fuori di ogni qualsiasi contraddittorio). È sempre per le stesse ragioni che alcuni membri del pool di Mani Pulite hanno incrociato la strada della politica. Penso a un magistrato che, dopo quell’esperienza, divenne ministro dei governi Prodi nel 1996 e nel 2006, e alleato del centrosinistra in tutte le elezioni politiche fino al 2008. Penso a un magistrato che nel 2006 fu eletto senatore nella lista dell’Ulivo. E penso a un altro magistrato, quello del “resistere, resistere, resistere”, che scese in campo, diciamo così, per sostenere la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico. Eccoli i risultati di una politicizzazione spinta: inchieste condotte a furor di popolo in quanto sostenute, a prescindere, dai media e dall’opinione pubblica; magistrati sempre indaffarati, con il cellulare all’orecchio e lo sguardo di chi farà giustizia… e magari nelle frettolose retate viene calpestata ingiustamente qualche vita; trionfo del Cencelli negli organigrammi delle procure; correnti ormai votate più a ottenere riconoscimenti che a dibattere sulle necessità giudiziarie per far crescere una sana cultura di giurisdizione; ascesa di alcuni magistrati – sparuta minoranza, per fortuna – ormai geneticamente modificati dalla convinzione che, spesso, per raggiungere un determinato ruolo conta più chi ti propone di ciò che tu stesso hai fatto per guadagnartelo; magistrati che passano mesi in campagna elettorale, mesi a promettere cose che poi dovranno mantenere quando raggiungeranno un obiettivo.

Allora è ovvio che qualcuno pensi, mettendo insieme i pezzi, che talvolta l’azione della magistratura possa nascondere un fine legato non solo al rispetto della legge, ma anche a un’idea della politica. Attenzione, non mi riferisco a complotti o ad altre ingenuità del genere. Qui si tratta proprio di un problema di metodo, individuale. Non esistono complotti, esistono atteggiamenti, che a volte possono essere più o meno diffusi, e questi atteggiamenti spesso presentano lo stesso problema: la legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. Anche nel caso Ruby, che in linea teorica avrebbe dovuto essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale (…).

Mi rammarico poi di non capire fino in fondo con quale faccia e credibilità, in tutti questi anni, amici e colleghi abbiano non di rado usato la magistratura come un trampolino da cui lanciarsi per entrare in politica o ottenere incarichi utili e di prestigio. Ne ho visti e ne vedo anche oggi: candidati presidenti di regione, presidenti del Senato, ex candidati alla presidenza del Consiglio, candidati sindaci, assessori, ministri. Ma come si fa? Non si capisce che utilizzare la propria dote giudiziaria per fini politici rappresenta un danno di immagine per tutta la magistratura? Non si capisce che, una volta che si diventa di parte, viene considerato, o rischia di essere considerato, di parte tutto quello che si è fatto fino a un attimo prima con la toga sulle spalle? Non si capisce che far diventare di parte anche un solo processo significa dare l’impressione che tutta la magistratura sia di parte? Che mettere la legalità a servizio di una parte politica equivale a dire che chi sta dall’altra non rappresenta la legalità? E non si capisce, infine, una cosa banale, e mi verrebbe da dire drammatica, una questione che, se vogliamo, c’entra, ancora una volta, con la parola legalità. Sia chiaro, non voglio pensare che sussista il delitto di abuso d’ufficio (articolo 323 c.p.) solo perché la Costituzione impone al magistrato indipendenza, imparzialità e soprattutto terzietà (articoli 25, 101, 102, 104, 107, 108, 111), ma per lo spirito – solo lo spirito – di codeste norme non si potrebbe pensare che un magistrato che usa la propria carriera per mettersi in politica, o anche solo per fare politica, sia un magistrato che abusa del proprio ruolo e se ne infischia della parola terzietà? Non puoi essere terzo oggi e schierarti per una parte domani. Non devi farlo e non dovrebbe esserti consentito. Se lo fai, commetti un errore. Hai abusato della visibilità del tuo ufficio, vivaddio, e in questo modo insinuerai nella testa dei cittadini l’idea che il magistrato terzo sia l’eccezione, non la regola. Sì, è davvero un dramma. (…)  Così non va e non è possibile che non si cambi. Lo dico forte della certezza che si tratta di poche mele marce. Forte del fatto che, come me, la stragrande maggioranza dei colleghi ha sempre evitato non solo l’utilizzo della visibilità istituzionale a fini politici, ma qualsiasi rapporto potesse far sospettare la possibilità di un trattamento vantaggioso perché legato alla funzione. Io, per capirci, come quella stragrande maggioranza, l’automobile l’ho sempre comprata da chi non mi conosceva. Ecco. Basterebbe far perdere alle correnti ogni valenza diversa da quella culturale. Basterebbe adottare nuovi criteri per la selezione del personale. Basterebbe premiare i bravi, non i raccomandati. Basterebbe far entrare un po’ di merito nel nostro mondo. Basterebbe far sì che l’appartenenza alle correnti cessasse di essere conveniente, per dirne una, sorteggiando i consiglieri del Csm e non più eleggendoli seguendo la logica del Cencelli dopo più o meno abili campagne elettorali. Basterebbe così poco, ma nessuno lo fa. E di fronte a questa situazione c’è solo da dire: scusate davvero, ma io non ci sto.

“Sì, era meglio Berlusconi"


Il Cav. nemico rivalutato. Da Travaglio a D’Alema. Miracoli dell’anti renzismo
di Salvatore Merlo | 23 Giugno 2016 ore 10:55
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Silvio Berlusconi (foto LaPresse)
Le prime avvisaglie sono state caute, sommesse e furtive: “Renzi è per certi versi peggio di Berlusconi”, diceva Di Maio. Ma da tenue e smorzato il coro a mezza voce ha iniziato a diventare, a poco a poco, inequivocabilmente chiaro: “Silvio Berlusconi era meglio di Matteo Renzi”, ha detto a un certo punto Marco Travaglio. E insomma da brusio stropicciato, la cautela si è trasformata in scroscio (“eh, però quando c’era Berlusconi…”, ha detto Ferdinando Imposimato), poi addirittura in scoppiettio: “Berlusconi col sindacato ci parlava”, ha detto Landini. Fino al punto in cui non ci si meraviglia più di nulla, neanche di sentir cinguettare Di Battista (“gli italiani si stanno accorgendo che con Berlusconi era meglio”) e poi gorgogliare Santoro (“La Rai ha chiuso il dialogo con me, nemmeno Berlusconi arrivava a tanto”), fino al gran finale, che in un crescendo forsennato, attraverso il rombo e il clangore di Beppe Grillo (“Io preferisco Berlusconi, almeno lui combatte per le sue aziende”), arriva al maximum e all’optimum, cioè allo scampanio di Massimo D’Alema ieri sul Corriere: “La riforma costituzionale di Berlusconi era fatta meglio di quella di Renzi” (per inciso è la riforma che D’Alema affossò).

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E certo, ai più, quelle parole, odorose di vittoria e di naftalina, suonarono come i lumi e le leggende d’un uomo refrattario al capriccioso comportamento delle percentuali elettorali, alle arbitrarie mattane dei numeri, insomma incapace d’accettare la tirannia del tempo che passa, con le sue minacciose lancette, un giocatore impossibilitato a piegare la testa di fronte al declinante consenso che inchiodava Forza Italia a un ruolo marginale, lontanissimo, alle spalle di Renzi, e persino gregario nei confronti della Lega. Poi però domenica scorsa sono arrivate le elezioni amministrative, la prima sconfitta di Renzi, a Roma e a Torino, il flop di Salvini a Milano e a Varese: le schiene che improvvisamente si raddrizzano, le sedie che si accostano, gli sguardi che si fanno più animati, i palati che vibrano, le ambizioni ormai sopite che d’un tratto si riaccendono tra gli sconfitti, tra i rottamati, nella sinistra, sulle colonne dei giornali, nella vecchia Lega e in Forza Italia, tra le poltroncine dei talk-show e in ogni corridoio laterale e sconfortato del Palazzo.

“I Matteo si consumeranno, si logoreranno e poi l’Italia mi riscoprirà”, diceva allora Berlusconi che, come certi animali, forse possiede un istinto formidabile per i cambiamenti atmosferici della politica, e per gli umori pazzi degli italiani, o forse ha soltanto quella sfacciata e taumaturgica fortuna che alcuni osservatori, tra il serio e il faceto, tra politologia e superstizione, in questi ultimi vent’anni hanno spesso definito, alludendo a quella parte del corpo che mai si cita sulle colonne di un quotidiano serio, come il fattore c…, a indicare appunto la dismisura della sua buona sorte. E poiché il caso è notoriamente capriccioso – si diverte cioè con le inverosimiglianze e con la surrealtà – dove l’apoteosi berlusconiana in questi giorni è totale, dove il trionfo va in carrozza, abbastanza da allietargli la faticosa degenza in ospedale, è tra i nemici della sua vita, sui giornali che al Cavaliere hanno fatto la guerra, tra coloro i quali coltivavano la filosofia della diversità antropologica.

C’è infatti in Italia, d’improvviso, tutto uno strano, singolare, sorprendente, per certi versi divertente fenomeno revisionista nei confronti del Cavaliere, nemico archiviato e rivalutato, sostituito – e nei medesimi termini di fissazione ossessiva (è difficile sottrarre ai fissati l’oggetto della loro fissazione, in particolare quando si costeggia l’ossessione o la psicopatologia spinta) – dalla figura di Renzi: dunque D’Alema, Landini, Travaglio, Di Maio… persino Luciano Canfora che, intervistato, ha spiegato come Berlusconi fosse decisamente più liberale di Renzi: “Oggi la Rai e giornali sono servi”. Ed è tutto un coro a mezza voce, a bocca storta, a occhi guardinghi, ma unanime e appassionato: “Berlusconi, bisogna dirlo, è stato più bravo di voi, è stato più rispettoso delle regole della democrazia rispetto a voi”, ha scandito in Parlamento un tale Airola, deputato dei Cinque stelle, “in questa riforma costituzionale non è passato un solo emendamento delle opposizioni”. E insomma la conversazione potrà magari cominciare dalle elezioni o dal prezzo della pasta, sfiorare la fiction di ieri sera su Sky, l’inflazione, l’articolo 18, il Jobs Act, la riforma costituzionale o il vaccino antinfluenzale e l’ultima ricetta di Carlo Cracco, ma presto o tardi arriverà al dunque: “Berlusconi era meglio”. Ritornano così alla mente i vaticini ribaldi e un po’ assurdi del Cavaliere: quando vi sarete convinti di avermi gettato dalla porta di strada, allora vi accorgerete che sono rientrato dalla finestra, a danzarvi davanti come un moscone. Eccolo lì, pare di vederlo.

Lettera aperta e peregrina su visita al ns sior lu sindicu

Dimenticavo:
Cronachella di un tempo disperso tra scale e stanze e corridoi del palazzo comunale nuostro, e in seguito, faccia a faccia con lu sior sindicu. Mi sono dilungata, e al posto di un singolo aggiornamento su una singola questione, ho lasciato che pensieri e parole volassero... in libertade. Ah ah. Non ci devono essere abituati.
Dico: ma la manutenzione delle strade, che una schifezza sono? Mah, non sbaglio se nel bilancio inserito sotto la voce TASI (mi sembra quella, comunque, una di quelle sigle sibilline...) affermo che ce ne dovrebbe essere anche per quello scopo, oltre che per lo stipendio degli addetti alla polizia municipale (il max dei fondi della tassa sui servizi indivisibile va in quel pozzo...)?
Ah, risponde gliu sindico: ma io, (forse ha detto "noi") ho preferenziato il sociale. E si quasi illumina come un fiammero di quelli all'antica, al fosforo.
Io invece mi incazzo, e rispondo che a mmmia del "sociale" non mi arriva nemmeno l'odore. Però, questo sedicente "sociale", si mangia quel poco che mi spetta, per cui ho sempre pagato. Insieme alla mia famaiglia. IO, sono il SOCIALE. NOI, siamo il SOCIALE. Uhhh, ci vede, siamo qui, signor lu sindico!!!
No, lui non ci vede. Lui, probabilmente guarda oltre, e con gli occhiali sul naso, di quelli affumicati. Eh, lei non sa che situazioni c stanno in giro, dice. Ah beh, certo, penso, ma evito di cominciare quel tipo di discorso che sennò stavo ancora lì. Probabilmente a inveire. E comunque, certo che lo vedo, il sociale che intende lui. Stava già lì in chiaro, sui suoi manifesti elettorali. E lo vedo anche che passeggia acchitto e scanzonato, musica incollata alle orecchie e, al femminile, pantaloni pre-bagnati nella colla così che aderiscono meglio alle forme, tette al vento, gioiellini magari bigiotteria ma che je fa, sbrilluccicano comunque. E lo vedo pure nelle frutterie - come dire - sociali, che prosperano sul territorio, con licenza a tasse zero. Forever. Poiché allo scadere del triennio di beneficio fiscale la licenza passa a novello usufruttuario.

Ma di questo non l'ho accusato. Lui ancora non c'era. Però, a ben riflettere, adesso si che ci sta. E si vede che un certo sociale è più sociale di altro sociale che nemmeno per lui si vede che è sociale.
Comunque, un po' confuso mi è sembrato. Gli facevo presente che all'interno del Comune (uno per tutti, ovviamente) ha imperato e impera, probabilmente, il nepotismo. Mugghière, marito, figghiù, nepote, cumpare e cumpariello, probabilmente. Entrano dai buchi del gruviera, gli dico, poiché l'unica volta che ho fatto domanda per partecipare a un concorso (l'ultimo di cui ho avuto notizia, circa trent'anni fa), essendo ben qualificata, pensarono meglio di cancellare il concorso stesso. Poi, ovviamente, sono andati in Svizzera, a farsi svelare il segreto delle procedure per produrre quel ben formaggio pieno di buchi che i topi ci possono passare attraverso, perfino senza essere visti o notati, almeno finché lo scopo non è raggiunto. Lui si sconvolge quel tantinello e inalberato nega, nega pervicacemente di avere né moglie né parenti né amici proditoriamente infiltrati negli strati del potere comunale.
Mi è toccato spiegargli in parole semplici e povere e comprensibili che di certo non intendevo riferirmi a lui, appena insediato. Cazzo, a parte l'onestà della persona, e casomai lo si vuole dare tempo al tempo???
Ma quando gli ho reso chiaro il concetto che a me, del "sociale" come lo intendono lui e i suoi favoriti non me ne fotte una beata minchia, ha girato lo sguardo verso il monitor del computer per farmi capire che allora, se era così, a lui non gliene fregava una beata minchia di me. Anzi, data la posizione di favore, la sua minchia assurgeva al rango di emerita.
A proposito, quando sono entrata nella di lui pre-stanza (non era ancora arrivato), e ho visto l'occupante, le ho detto: ah, sei arrivata fin qui!
In seguito, chiesti lumi, sempre allu sindicu, come fu e come non fu che la persona accomodata dietro la bella scrivania fosse insiediata proprio lì, visto che la salita doveva essere stata lunga, sebbene, a riflettere, non faticosa - perché, e voglio dire... magari si poteva anche assegnare diversamente, lui, scuornusu, arrispunne:
l'ho scelta io.
Gasp. Non sapevo che gliu sindicu avesse tale strapotere. A saperlo... magari mi informavo meglio prima...
Per non parlare di quanto si affannano e si affaticano certe privilegiate. Un tempo, negli uffici della FAO, dopo il survey per capire se e quanto il personale fosse efficiente e necessario, gli impiegati di certi settori vennero messi, come dire, in piena luce: a controllarsi l'uno con l'altro, seduti dietro scrivanie, in spazi separati da pareti di vetro.
Qui, il vetro c'è, ma poiché lo spazio è unico, non c'è nemmeno bisogno di alzarsi dalla sedia per trascorrere del tempo in lieta conversazione.
Scusi, dico io, ma non si potrebbe risparmiare sul personale, datosì che non lo vedo sufficientemente impegnato, e ATTAPPARE le BUCHE???
E pensare che l'intenzione primaria che mi aveva sospinta a incontrarlo in sede (dopo averlo inutilmente interpellato più volte, anche per la via) era stata quella di verificare che finalmente avesse avuto tra le mani il mio esposto contro i sistemi messi in atto CONTRO la populascion. Eh... la sora segretaria, smarrita ma non troppo in quanto probabilmente adusa a certe sviste... dopo aver fatto dovuta ricerca sul proprio computer e aver individuato il documento in questione, l'ha stampato. Ma solo quando, avendo visto gliu sindicu entrare in Comune sono risalita fino al suo studio, finalmente, vedendomi ricomparire, glielo ha consegnato. Solo tre mesi. E sarebbe morto lì. Probabilmente è morto comunque, lì. Anche se gli ho perentoriamente chiesto di venir informata sulla sua opinione in merito. Certo, venire spiata allo scopo di essere beccata in fallo e bellamente multata per processionare non tolte... Carini, eh... Ovviamente, poiché se non erro si va abolendo il reato di omissione di atti d'ufficio, che ari-minchia gliene fotte?
Un tempo si diceva 'a da veni' Baffone. Oggi non aspettiamo a nisciuno in particolare. Potessi andarci io... Mi basterei da sola!

venerdì 24 giugno 2016

Giustizia. Una lectio magistralis, articolo di Carlo Nordio

Caro Renzi, una parola sola: giustizia. Una lectio magistralis

Il procuratore aggiunto di Venezia sull’inefficienza dell’apparato giudiziario, la sua vetustà culturale e altro

di Carlo Nordio | 06 Marzo 2016 ore 06:15


Come una buona ragione – secondo l’insegnamento di William Shakespeare – deve sempre cedere a una ragione migliore, così una priorità deve sempre cedere a una priorità più prioritaria. Di conseguenza, quantunque il governo abbia sempre indicato come urgente e indifferibile la riforma della giustizia, di fronte alle urgenze più urgenti come il terrorismo, il salvataggio delle banche, i dissidi con la Merkel e le unioni civili, anche la giustizia può aspettare. “So let it be”. Dunque, aspettiamo. Due problemi da segnalare senza indugi sono l’inefficienza dell’apparato e la sua vetustà culturale.

ARTICOLI CORRELATI Cosentino 850 (ottocentocinquanta) La giustizia di Gip e Giop Perché è il momento di rivoluzionare il concorso esterno Responsabilità civile, i numeri segreti L’inefficienza, cioè la lentezza dei processi, è notoriamente la malattia endemica del sistema. Da essa dipendono quasi tutte le altre patologie, come l’abuso della carcerazione preventiva, l’incertezza della pena, e più in generale l’esasperata sfiducia del cittadino nella giustizia: una sentenza che costringa il debitore a pagare con dieci anni di ritardo è comunque una sentenza sbagliata. La risposta governativa a questa emergenza è stata la rottamazione di centinaia di magistrati ultrasettantenni, con la conseguente temporanea paralisi degli uffici giudiziari. Per di più il provvedimento è stato adottato oltre un anno fa con un decreto legge, necessario e urgente, che tanto urgente non doveva essere, visto che la sua operatività è stata prorogata due volte. Questa, e altre incongruenze, lo hanno esposto a una solenne bocciatura del Consiglio di Stato, e probabilmente lo esporranno a quella, più radicale e devastante, della Corte Costituzionale.

La vetustà culturale. Il nostro codice penale è datato 1930, e reca la firma di Mussolini e di Vittorio Emanuele. E’ ovvio che su certi princìpi, come la disponibilità del diritto alla vita, la legittima difesa ecc. è incompatibile con una moderna visione liberale. Per di più è appesantito da centinaia di norme speciali, spesso assurde, inutili e incomprensibili, che rendono l’intero sistema un indovinello dentro un enigma avvolto in un mistero. Malgrado la quasi totalità degli operatori – magistrati, docenti universitari, avvocati – siano concordi nella necessità di una semplificazione e di un’armonizzazione sistematica, si continua a intervenire con leggine ad hoc, generalmente ispirate dall’emotività di eventi contingenti, come il femminicidio, l’omicidio stradale o i vari reati economici. Quanto al codice di procedura penale, esso sta anche peggio. Benché firmato da una medaglia d’oro della Resistenza, è già stato snaturato e demolito più del suo fratello firmato da Mussolini. Basta sfogliarne il testo per notare un’inquietante preponderanza degli articoli in corsivo, che rappresentano interpretazioni, soppressioni, integrazioni, modificazioni e sostituzioni intervenute in questi 25 anni. Con due codici così non c’è da stupirsi che la giustizia sia impantanata.


Legittima difesa e Codice penale

Torniamo al Codice penale. Dopo quasi 70 anni di Costituzione repubblicana questo può sembrare un paradosso, eppure è così: il codice del 1930 è ancora pienamente in vigore. E dall’ideologia fascista, che ne costituisce il connotato culturale, derivano conseguenze pratiche importanti: per esempio che chi si difende in casa da un’aggressione ingiusta è sempre e comunque sottoposto a un’indagine. Questo naturalmente non significa che venga arrestato, processato e condannato. Al contrario, la stragrande maggioranza dei casi si conclude con un’archiviazione. Ma nel frattempo l’aggredito ha perso soldi, tempo e tranquillità, e forse anche fiducia nello Stato.

La ragione per la quale l’indagine è obbligatoria è la seguente: nell’impostazione sistematica del codice mussoliniano l’aggredito che si difenda commette materialmente un reato. Tuttavia non è punibile se rispetta due limiti: la proporzione (non si può sparare a chi ruba una gallina) e l’attualità del pericolo (non si può andare a cercare il ladro a casa sua). Compito del magistrato è verificare il rispetto di questi limiti, e per far questo deve iscrivere la vittima dell’aggressione nel registro degli indagati. Un atto dovuto a garanzia della sua difesa, che però, nello sfacelo del nostro sistema processuale, è diventato un famigerato libello di condanna anticipata. Messa così, la legge non è del tutto irragionevole: è ovvio che non si può sparare alle spalle di chi scappa con un pennuto, né tantomeno farsi in seguito giustizia da sé. Il fatto è che lo sfortunato che si trovi di notte un intruso in casa non può sapere se costui miri alla biancheria o a rapirgli il bambino. E se, reagendo per paura, spara e ammazza il ladro, non lo fa per sostituirsi al giudice come un eroe del Far-West, ma per evitare un danno che potrebbe essere irreparabile e doloroso. Un danno, si noti, che lo Stato non ha saputo impedire. L’impostazione fascista del codice impone di inquisire chi si difende perché pone la questione così: fin dove l’aggredito ha diritto di reagire? E risponde come sopra: nei limiti della proporzione e dell’attualità, da accertarsi nell’indagine penale. Di conseguenza, finché questa impostazione rimarrà, le cose resteranno come sono: infatti l’articolo 52 sulla legittima difesa era stato cambiato nel 2006 dal governo di centrodestra, senza il risultato sperato: non si può cambiare un edificio mutandone un mattone. L’impostazione liberale di un codice nuovo dovrebbe invece essere diversa. Lo Stato è un contraente paritario con il cittadino, che gli cede l’autodifesa dei propri diritti naturali (l’incolumità e la proprietà) pretendendone in cambio la tutela. Questa devoluzione non è incondizionata e irreversibile. Non è una cambiale in bianco. E se lo Stato è inadempiente, la persona ha il diritto di riprenderseli. Così inquadrato il problema, l’intero procedere logico cambia registro. Non più i limiti imposti dallo Stato all’individuo, ma quelli imposti dal cittadino allo Stato. Non più il quesito iniziale, “fin dove l’aggredito può reagire?”, ma quello simmetrico: “Fin dove lo Stato può sanzionare?”. Per essere ancora più chiari: che diritto ha lo Stato di punire la reazione a un crimine che lui stesso, lo Stato, non è riuscito a impedire? La scelta della soluzione è solo politica e soprattutto culturale.


Responsabilità civile

Da molti anni un altro tema largamente dibattuto è quello della responsabilità civile dei magistrati. Il problema è serio perché l’Italia è l’unico paese al mondo in cui esista un potere senza responsabilità. Prendiamo il pubblico ministero. E’ il capo della polizia giudiziaria, quindi dirige le indagini con una discrezionalità che può sconfinare nell’arbitrio, conferendogli attribuzioni impensabili. Ad esempio, solo spedendo un’informazione di garanzia, può condizionare la vita politica di un parlamentare, di un governo e magari di una legislatura. Una simile forza dovrebbe essere bilanciata da una responsabilità equivalente; negli Stati Uniti, ad esempio, è controllata dalla volontà popolare, perché il District Attorney viene eletto dai cittadini. Invece da noi il Pm gode delle stesse garanzie di indipendenza e autonomia del giudice, e quindi non risponde a nessuno. Può imbastire processi lunghi, costosi e fantasiosi. Alla fine dirà che l’azione penale è obbligatoria, e che ha solo fatto il suo dovere. Se dal pubblico ministero passiamo al giudice, il problema è anche più serio. L’Italia è l’unico paese con un processo accusatorio dove un cittadino assolto possa essere riprocessato e condannato in una sequenza infinita. I casi sono noti, e sarebbe doloroso farne i nomi. Questa è una follia logica, perché se la condanna può intervenire solo quando le prove a carico resistono a ogni ragionevole dubbio, bisognerebbe ammettere che i magistrati che avevano assolto erano degli imbecilli. A parte questo, in una simile catena di sentenze, che negli anni hanno coinvolto decine di magistrati, chi avrà sbagliato e chi no? Difficile dirlo. Ancor più difficile distinguere tra responsabilità dei giudici togati e di quelli popolari, che, in corte d’assise, hanno gli stessi poteri dei primi. Faremo causa anche a loro? Chissà. Di fronte a problemi così complessi, governo e parlamento hanno risposto in modo emotivo. Condizionati dallo slogan del “chi sbaglia paga”, invece di incidere sulle cause degli errori giudiziari – come ad esempio l’irresponsabile potere dei pubblici ministeri – hanno preferito agire sull’effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie. Scelta inutile, perché ci penserà l’assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita. L’aspetto più singolare di questa vicenda è stata tuttavia la reazione dei magistrati.Alcuni hanno minacciato lo sciopero, altri forme più blande di protesta, tutti hanno, apparentemente, mugugnato. Alla fine non è successo nulla, salvo il rinvio alla Consulta della parte più ambigua della legge: quella che appunto consente, o pare consentire, di far causa allo Stato (e quindi al giudice) prima che la causa sia definitivamente conclusa, con l’effetto automatico di paralizzare i processi. Perché il magistrato denunciato si potrà astenere, passando il fascicolo al collega, e questo a un altro, e così per l’eternità. (…)


Intercettazioni

Nell’ultimo ventennio, si è più volte tentata la modifica della disciplina sulle intercettazioni telefoniche, in conseguenza di indebite pubblicazioni di intercettazioni private non rilevanti ai fini delle indagini. All’inizio di quest’anno, alcune Procure hanno definito alcune linee guida nella gestione delle intercettazioni e questa può sembrare, e in parte è, una buona notizia. Perché finalmente si è capito che l’articolo 15 della “Costituzione più bella del mondo”, che santifica il precetto di inviolabilità delle conversazioni private, era andato, da tempo, a farsi benedire. Ma la buona notizia si ferma qui, per i seguenti motivi.

Primo. Se siamo arrivati a questo saccheggio del diritto alla privacy, la colpa non è tanto del legislatore, quanto della stessa magistratura. La legge c’è, ed è chiarissima. L’art. 268 6° comma del codice di procedura penale dispone infatti che le registrazioni e le comunicazioni possono essere utilizzate dopo la loro trascrizione nella forma della perizia, sentite le parti, se ne fanno richiesta. E invece, con una discutibile propensione accusatoria, la nostra giurisprudenza si è compiaciuta di interpretare la norma in modo opposto, e i brogliacci della polizia sono finiti, transitando attraverso le richieste del Pm e le ordinanze del Gip, su tutti i giornali. Così è stata vulnerata non solo la tutela della riservatezza, ma anche l’affidabilità della prova.  (…)

Secondo. Queste direttive non sono solo disomogenee ma valgono, ammesso che valgano, per i soli uffici di appartenenza. Quindi basterà varcare il ruscello di confine tra una provincia e un’altra per avere discipline differenti su una materia così delicata. (…).Tale incertezza del diritto confonderà ancor di più il povero cittadino, già convinto che la giustizia sia una sorta di aleatoria superstizione.

Terzo. Tecnicamente, è irragionevole devolvere alla sola Polizia, o al solo procuratore, la decisione di quanto in una conversazione è rilevante o no. Educato dal salutare precetto di Richelieu – “datemi una lettera e una forbice e farò impiccare l’autore” – il legislatore dovrà pur consentire ai difensori l’ascolto delle conversazioni nella loro integralità. Perché se parlo di polvere bianca, e poi aggiungo che mi ha attenuato l’acidità gastrica, l’ambiguità della prima frase è eliminata dalla spiegazione della seconda, e quella che poteva sembrare cocaina si è rivelata bicarbonato. Ma così le persone che avranno accesso alle registrazioni resteranno numerose, come resteranno le possibilità di divulgazioni illecite e le difficoltà di individuarne l’autore. Esattamente come accade ora. Infine, e più grave, questa pur meritoria uscita dei procuratori è sintomatica dell’incapacità della politica di portare a buon fine le sue stesse iniziative, ogniqualvolta si deve riformare questa sgangheratissima giustizia. (…) Ogni buon proposito della politica si è mitigato, e alla fine si è spento come la candela di Macbeth, davanti alle critiche di una magistratura rigorosa. Magari la stessa che oggi, finalmente, si sostituisce alla sua inerzia colpevole.

*Pubblichiamo ampi stralci di alcune riflessioni che oggi il Procuratore aggiunto di Venezia presenterà nella sua lectio magistralis (“Una parola sola: giustizia”) in occasione di Lex Fest, kermesse sul diritto che si tiene a Cividale del Friuli (Ud), organizzata dal team di comunicazione strategica “Spin”

martedì 17 maggio 2016

Risposta a un commento su post ref. corretto riciclaggio rifiuti

Claudio Tondi: sarebbe troppo bello se coloro che organizzano e governano e stabiliscono le tassazioni si facessero carico veramente della sopravvivenza della Terra. Ma io li vedo più impegnati a mantenere alto un proprio standard di vita, piuttosto, ignorando molta parte del resto. Cosa facciamo dei barboni, ad esempio. Ricicliamo anche quelli? E in quale contenitore? Pongo la domanda, che non è peregrina quanto sembra. In effetti, quanto manca accioché non ci si abbia ad affaticare a contare nuovi nati Italiani. Quanta parte di essi andrà ad accrescere la montagna di rifiuti... umani, purtroppo? E dunque, ma la coscienza la dobbiamo far pesare sono noi "comuni" mortali ovvero "sudditi"?. Sa che le dico, poiché la vedo brutta per la nostra popolazione, e personalmente non vedo grandi possibilità di discendenza per noi Italiani (eh sì, perdoni la focalizzazione...) cominciamo a far fare i conti a tutti quelli che stanno per ereditare la Terra. Certamente, non noi. Sono stanca di preoccuparmi per il benessere di un'umanità che se ne fotte dei miei problemi di sopravvivenza. Però, lo riconosco, finge molto bene di prendersi cura del Pianeta. Magari gli idealisti ci sono, ma andavano bene fino a quando non c'era questa mostruosa sovrapopolazione. Il problema è diventato dramma. E io sono stanca, anche di strapagare e di non essere remunerata in alcun modo per tutto il tempo che ci si chiede di dedicare allo smistamento in casa dei rifiuti. Qua in Italia si straparla sempre di esempi virtuosi che ci vengono dall'estero ma poco si copia quello che positivo, dall'estero, ci potrebbero servire sul piatto d'argento. Esempio: già negli anni '90 in Svizzera, i condomini acquistavano un certo numero di buoni mensili. E per quel numero avevano altrettanti contenitori da depositare per la raccolta da parte del servizio rifiuti. Perché io - per dirne una - che produco pochissimi rifiuti, ma ho una casa grande perché ho dato una prole numerosa alla Patria - e oggi pagano le tasse - e un tempo, coi sacrifici e col lavoro e dedizione, ce la siamo potuta permettere... perché io, che ho lavorato GRATIS per questo Stato vampiro, che per via di abusi e vessazioni da parte sempre di questo Stato vampiro sono rimasta vedova... perché io devo dare allo Stato vampiro, oltre a tutti gli altri caspiti e mazzi... (cercate pure la rima...) solo per la raccolta dei rifiuti, circa 1000 euro l'anno? Per la Terra? Scusate... ma se non ce ne saranno nemmeno per il funerale!!!

Uomo e religiosità (anche Donna... :=)) )

Mah, ammettiamo pure che agli albori ogni fenomeno, manifestazione, che oggi ben sappiamo essere naturali, terrorizzavano gli abitatori della Terra i quali, di conseguenza, sentirono una primordiale necessità di affidarsi a una forma di protezione, invisibile e dunque potentissima. 

Fin da allora ci fu chi comprese la smisuratezza del potere che tale "sudditanza" poteva consegnare nelle mani di chi avesse avuto l'intuito e la forza di esercitarlo. Nei secoli, le scoperte scientifiche vennero avversate in quanto portavano insito il germe della libertà di pensiero e dunque, di azione. L’Inquisizione non regna più tra i Popoli cosiddetti evoluti... ma la Chiesa, che non rinuncerà all’esercizio dell’antico potere, seppur ormai più per fini pratici che moralistici, dovrà combattere contro forze altrettanto egemoni e ben più retrive, che potrebbero far precipitare l’umanità indietro fino ai secoli peggiori delle persecuzioni religiose con annessi, connessi e sconnessi. A questo punto, spererei che vincesse la Chiesa Cattolica piuttosto che l’Islamismo...

Riflessioni su parole del ministro Orlando a propòs di stepchild e adozioni internazionali

Tutto sommato, le argomentazioni del ministro Orlando sono giuste. E' quando arriva alle adozioni internazionali e parla di sopravvenuta "sfiducia" nell'istituto delle stesse e dei possibili, auspicabili incentivi, che non mi quadra più.
Voglio dire, intanto ormai i migranti vengono direttamente qui con famiglia e figli a seguito e dunque, poiché sono accolti con profusione di benefit che a casa loro - non avendone mai goduto - non se li potevano nemmeno sognare - è diminuito per forza il numero dei minori adottabili all'estero. A seguire, probabilmente il lievitare dei costi dovuto anche a... lo vogliamo dire... smazzettamenti vari... ha messo un altro freno.
Voglio ancora dire: ma tutte 'ste risorse che l'Orlando-qui-Furioso vagheggia ma... per i' "criature" nuostre, per i soliti negletti nostri (negletti, giusto, non è un refuso, non intendevo significare negretti)...
Peraltro, trovo giusto e doveroso che chi pensasse di adottare "aggratisse e senza sforzo" un minore straniero, con tutti quelli che abbiamo di "nostri", abbia a ricredersi. E che cazzo!
Cito, dall'articolo: Tra le «criticità, che hanno contribuito a creare un clima di crescente sfiducia verso l'istituto dell'adozione, soprattutto internazionale», Orlando indica la maggiore preparazione che si richiede oggi alle famiglie che aspirano all'adozione internazionale, considerato che sempre più spesso hanno di fronte «minori non più in tenera età», «gruppi numerosi di fratelli», «bambini con particolari esigenze sanitarie». Pesano anche «l'importante impegno economico necessario per concretizzare un'adozione internazionale», le «attese lunghe» e i «percorsi complessi». Un aiuto potrebbe venire dall'istituzione dell'Agenzia italiana per le adozioni internazionali, che dovrebbe svolgere funzioni di assistenza giuridica, sociale e psicologica per le coppie che intendono adottare e coordinare le diverse istituzioni in campo.

«Non è nostro compito dire come devono intervenire i magistrati con le sentenze. Siamo noi a chiedere con la legge ai giudici di svolgere la loro attività…
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